Lettera di Bernat Rosner a Miriam Bisk e agli ex allievi e amici di Selvino:

Gentile Miriam,
Grazie a te (e agli altri interessati) per avere pubblicato la mia storia sul sito di Sciesopoli.
Sono molto grato di poter partecipare al vostro incontro almeno in questo modo vicario.
Invio il seguente mio breve messaggio a coloro che partecipano alla riunione:

 
“Cari ex alunni di Selvino,
Il mio tempo a Selvino (בּית עלית הנוער) è tra i miei ricordi più belli, è stato il luogo in cui ho iniziato a guarire, ho avuto la fortuna di vivere una grande leadership e guida e ho fatto molti amici. Mi dispiace di non essere in grado di partecipare al vostro incontro di persona, ma io sarò con voi in spirito.! אנא קבל ברכות לבביות. שלום! לשנה טובה ובּרוחה! “בּרוך רוזנר


Il libro “Bernat Rosner e Fredric C. Tubach: Amici nonostante la storia” racconta la storia di due amici che vivono in California.
Casualmente le loro strade si incrociano poiché le loro mogli erano compagne di liceo. Si frequentano e diventano amici a tal punto da condividere l’idea di scrivere un libro sulla loro storia personale che, lentamente, ricostruiscono, pur essendo tanto diversa una dall’altra. Infatti, Rosner è orfano ebreo, internato a dodici anni e sopravvissuto ad Auschwitz, Mauthausen e Gusen, con i genitori e il fratello spariti nelle camere a gas. L’altro, Tubach, è un giovane tedesco della gioventù scout “Jungfolk” di Hitler che ha vissuto il regime nazista dal di dentro, nato il 9 novembre 1930.
La ricostruzione, a tratti dolorosa e tragica, delle loro due esistenze, cammina parallela con la loro amicizia che nel tempo si fa sempre più profonda e viva. La tragedia della seconda guerra mondiale, delle leggi razziali e della Shoah, trovano in questa intimità una visuale inconsueta e umana che supera gli stereotipi, per rompere il muro delle diversità, senza assolvere l’orrore dei crimini commessi dal nazismo e dell’ideologia della razza pura e superiore.
Ricordare per non dimenticare e per non commettere più simili crimini, nella tranquilla obbedienza al dovere e alle regole, in quella che è stata definita la “banalità del male”.

Questa storia assume una valenza speciale per Sciesopoli e Selvino.
Infatti Bernat Rosner, dopo essere stato liberato dai campi di sterminio e dopo tante vicissitudini, arriva in Italia, ai campi profughi di Tarvisio, Bologna e Modena e poi alla colonia per ragazzi di Piazzatorre e di Selvino.
Avrebbe tanto voluto essere tra noi a Selvino a festeggiare gli amici ritrovati dopo 70 anni, ma non è stato possibile e ci manda il suo saluto commosso dagli Stati Uniti dove vive.
Infatti il suo sogno era di emigrare negli USA. Grazie all’amicizia di un soldato americano, Charlie Merrill, che lo aiuta come se fosse un figlio, nel novembre del 1947 riesce a raggiungere gli Stati Uniti. Charlie Merrill ha oggi 94 anni e Bernat lo va regolarmente a trovare.
Bernat ci offre un quadro di Sciesopoli scevro da ogni accondiscendenza. L’impronta sionista dell’educazione voluta da Mose Z’eiri e ispirata al socialismo umanitario, ha l’obiettivo che tutti i ragazzi raggiungano la Terra Promessa di Palestina, attraverso l’emigrazione clandestina detta “Alyia Bet”. Questo si scontra con il sogno americano del ragazzo che, per realizzarlo, dovrà lasciare Selvino e passare diversi mesi nel campo profughi di Cremona in due grandi e squallide caserme, poi come ospite di una famiglia a Viareggio.
Però, il periodo trascorso a Selvino è rimasto sempre nella sua mente e nel suo cuore, come un momento di studio e di vita serena, dove c’era anche il suo amico Simcha Katz, che poi raggiunse la Terra Promessa, ma senza il quale non avrebbe potuto sopravvivere ai lager dello sterminio.

Nell’elenco dei bambini ebrei dell’archivio comunale di Selvino del dicembre 1946 al nr. 52 è indicato anche Bernat Rosner che allora era chiamato Baruch, , nato il 29 gennaio 1932 a Tov [Tab] in Ungheria.
1946-12-01 elenco Colonia Ebraica-Bernat-Rosner-Baruch

Nel libro di Aharon Megged si cita Rosner, dicendo erroneamente che era entrato nell’esercito americano e morto nella guerra di Corea.
Ciascuno di noi aspetta con impazienza il suo turno per immigrare“, scrisse Baruch Rosner sullo stesso numero di “Nivenu”, “e ciascuno di noi si culla nell’illusione di essere fra i partenti. Ci sono tra di noi alcuni che sono rimasti delusi perché sono qui da molto tempo ma non possono partire perché sono troppo giovani. Ogni conversazione verte sul come e sul quando. Anche se sappiamo che la vita in Palestina non è un letto di rose, ci rendiamo conto che stiamo costruendo una patria per noi e per i nostri discendenti, e una patria non può essere costruita senza superare difficili esperienze. Dobbiamo superare tutte le difficoltà per creare per noi una casa dove tutti possiamo essere contenti e soddisfatti.”
Baruch Rosner fu poi adottato da un soldato americano non ebreo, con il quale andò negli Stati Uniti.
Qui fu arruolato nell’esercito, inviato in Corea, e fu tra i caduti di quella guerra [Questa informazione non corrisponde al vero]. (Cfr. Aharon Megged “Il viaggio verrso la Terra Promessa”, pag. 74)”.

Bernat Rosner - Frederic C. Tubach“Verso la fine dell’estate Bernie fu trasferito, insieme a un gruppo di ragazzi nelle sue stesse condizioni, nel campo estivo di Piazzatorre, che era gestito da un’organizzazione sionista che si occupava dei ragazzi ebrei italiani.
Nell’autunno però il campo venne chiuso e i piccoli profughi dovettero spostarsi ancora. Il responsabile dell’organizzazione era un sionista convinto di nome Moshe Ze’iri, che dedicava tutte le sue energie alla sorte di quei ragazzi e della futura Israele. Se i giovani ungheresi sopravvissuti ad Auschwitz non erano in grado di prevedere il loro domani, Moshe Ze’iri faceva del suo meglio per difendere i loro interessi nella situazione caotica del dopoguerra. Li rassicurava dicendo che avrebbe trovato il modo di organizzare il loro esodo verso la Palestina, e mantenne la sua promessa.
Bernie non aveva mai sentito parlare delle cittadine italiane in cui dovettero sostare, nei loro incerti e continui spostamenti. A seconda della qualità di vita che caratterizzava il loro soggiorno in un certo luogo, l’umore dei profughi oscillava tra la disperazione e la speranza. Nel settembre 1945 giunsero infine a Selvino, una bella località di montagna a nord di Bergamo. Qui vennero ospitati nel sanatorio di Sciesopoli, che era stato costruito dal regime fascista per curare i bambini tubercolotici. Fu un soggiorno idilliaco, con molte giornate liete trascorse in un paesaggio incantevole. Bernie era felice, e per fortuna vi rimase per un lungo periodo, quasi un anno e mezzo, fino al febbraio 1947.
Poco dopo il loro arrivo a Selvino, Moshe Ze’iri organizzò un raduno per celebrare Rosh ha-Shanà, il Capodanno ebraico, insieme a quei giovani spiritualmente disorientati. Doveva essere la loro prima opportunità di celebrare i riti che i nazisti avevano cancellato prima di internarli. La vita religiosa di Bernie e della sua famiglia ortodossa si era infatti interrotta nella fabbrica di mattoni vicino alla stazione ferroviaria di Tab. Moshe Ze’iri sperava che quegli orfani ritrovassero le loro radici, ma fu costretto a sospendere la cerimonia perché tutti i ragazzi scoppiarono in lacrime. Quei riti così a lungo vietati facevano riaffiorare in loro il ricordo delle terribili perdite subite, e soprattutto della scomparsa dei familiari con cui li avevano condivisi.
Ma a parte questo tentativo fallito di rianimare la sua religiosità, durante il soggiorno a Selvino Bernie poté di nuovo assaporare, per la prima volta dal giorno in cui aveva lasciato la sua casa, la tranquillità di un’esistenza non soggetta al caso, di una vita organizzata da un ordine sociale che badava al bene comune o alla crescita dell’individuo. Poté perfino riprendere una vita scolastica quasi regolare. Selvino possedeva un’ampia biblioteca di testi ebraici, che comprendeva anche numerose traduzioni di testi inglesi e americani, e alcuni insegnanti molto motivati lo introdussero agli studi umanistici. Bernie divorò i libri che gli venivano proposti, inclusa una traduzione in ebraico della biografia di Vincent Van Gogh di Irving Stone. Leggendo la versione ebraica del romanzo di Upton Sinclair, La giungla, scoprì che l’ingiustizia sociale esisteva anche negli Stati Uniti. I responsabili del campo professavano un socialismo umanitario che implicava il rifiuto del capitalismo americano. Ma il fascino degli Stati Uniti si faceva sentire attraverso il cinema. I ragazzi potevano assistere alla proiezione di film come Sotto il cielo delle Hawaii, dove star di Hollywood quali Alan Ladd e Rita Hayworth si muovevano in un mondo fantastico di ricchezza e felicità. I sottotitoli non avevano importanza: potevano essere in inglese, in italiano o in qualsiasi altra lingua. Ciò che contava era la potenza delle immagini, che evocavano visioni di un regno magico situato a ovest, oltre l’orizzonte.
Nel campo di Selvino la lingua adottata era lo yiddish, che tutti potevano capire indipendentemente dal loro paese d’origine. I dirigenti del campo si adoperavano anche per diffondere l’ebraico: lo stesso Bernie venne incaricato di insegnarlo ai suoi compagni. Il piccolo gruppo di sopravvissuti a Mauthausen, sei ragazzi in tutto, compresi Bernie e Simcha, comunicava invece in ungherese, la loro lingua natale. Nel complesso, l’insegnamento impartito era privo del rigore ortodosso che caratterizzava la scuola ebraica di Tab. Bernie incominciò così ad avvicinarsi alla cultura laica, e se ne appassionò. Tra i passatempi del campo c’erano perfino delle danze e la consuetudine, nonostante i divieti, di scavalcare il recinto per esplorare i dintorni. Con il passare dei giorni e dei mesi, il riproporsi di una quotidianità serena aiutava i ragazzi a conferire un senso di normalità alle loro vite.
L’istruzione impartita a Selvino doveva soprattutto convertire quelle giovani menti alla causa sionista, inculcando in loro l’immagine di un eroico “ebreo nuovo” pronto a dedicarsi al futuro collettivo dei sopravvissuti e alla costituzione dello stato di Israele. Il messaggio veniva diffuso con grande fervore attraverso l’esempio di Moshe Ze’iri, che rappresentava il sionista ideale e, agli occhi di quei giovani ingenui, acquisiva una statura gigantesca. Proponendosi come modello e come guida, Ze’iri riuscì a infondere nel giovane Bernie una nuova consapevolezza del proprio valore.  Un giorno, tutti i profughi del campo vennero portati a Milano per assistere a una rappresentazione della Carmen di Bizet. In seguito, parteciparono a una manifestazione per rivendicare la nascita di uno stato ebraico in Palestina. Moshe Ze’iri era onnipresente: si occupava del loro passato, di gestire il presente e di pianificare il futuro dei suoi giovani discepoli.

Dopo la liberazione, e in particolare durante il soggiorno a Selvino, Bernie si rese conto però di aver perso interesse per la sua religione. L’insegnamento laico che riceveva nel campo e l’esempio di quei soldati forti e abbronzati gli sembravano più convincenti dell’atteggiamento remissivo e sottomesso degli ebrei ortodossi, che si affidavano ciecamente all’aiuto divino. Ad Auschwitz, di quell’aiuto non c’era stata traccia. Inoltre, la sua fede ortodossa era legata a un nucleo familiare ormai scomparso. Così, quando Bernie ricevette la lettera di una sorella della madre, sopravvissuta all’Olocausto, che lo esortava a raggiungerla in Palestina per entrare a far parte della comunità ultraconservatrice di Mea Sh’arim appena costituita a Gerusalemme, egli rifiutò. Il ritorno a un’esistenza da ebreo ortodosso non aveva per lui alcuna attrattiva.
I responsabili del campo riponevano in lui molte speranze. Bernie era forte, intelligente, autonomo, riusciva a esprimersi in tedesco e in italiano e, cosa più importante, conosceva bene la lingua ebraica. Ma soprattutto era sopravvissuto ad Auschwitz, Mauthausen e Gusen, dimostrando di avere un istinto vitale che lo rendeva più che idoneo all’esodo in Palestina. I giovani iniziati venivano addestrati in modo tale da sviluppare un sentimento comune di solidarietà e di dedizione alla causa sionista. Bende si sentì spesso ripetere che andare in Palestina era un suo dovere.
Invece il ragazzo confidava nell’aiuto di Charlie, l’amico americano di cui aveva conservato l’indirizzo. Bernie gli aveva scritto e verso la fine di agosto aveva ricevuto una prima lettera di risposta, che custodiva con cura. I due adesso corrispondevano regolarmente. Charlie gli aveva anche spedito una confezione di vitamine per integrare le razioni di cibo del campo.

Bernie possiede ancora la scatola di cartone che conteneva quelle pillole, uno dei primi cimeli che riuscì a salvare. Vi custodisce le fotografie scattate durante il soggiorno nel campo di Selvino.

Il documento che doveva decidere del suo futuro, una lettera datata 4 novembre 1945, gli giunse in autunno. Charles Merrill Jr. era stato congedato, aveva fatto ritorno negli Stati Uniti e all’età di ventiquattro anni era sposato e padre di famiglia. Scriveva per offrire all’ebreo ungherese sopravvissuto ai campi di sterminio una nuova opportunità: “Wenn ich Reisemoeglichkeit und Visum fuer Dich bekommen koennte, wuerdest Du dann nach Amerika kommen wollen, um mit uns als unser Sohn zu le-ben?”, se riesco a procurarti un visto e a trovare il modo di farti partire, verresti a vivere in America per vivere con noi come nostro figlio? Charles Merrill lo invitava a decidere liberamente e concludeva con una generosa offerta di aiuto, a prescindere dalla sua risposta: “Und ganz gleich, so Du bist und was Du tun willst, lasse mich bitte imrner wissen, was ich fuer dich tun kann”, e quale che sia la tua scelta, indipendentemente da quello che sei e dai tuoi progetti, ti prego di farmi sempre sapere che cosa posso fare per te. È davvero una strana ironia della sorte che questa lettera, così importante per il futuro di Bernie, sia stata scritta in tedesco. Il testo è piuttosto sgrammaticato, ma la proposta è un esempio notevole di umanità.

La guerra si concluse nel mese di agosto 1945 con il lancio della bomba atomica su Hiroshima, ma per lungo tempo ancora l’Europa visse nel caos. In questo clima di incertezza totale, il ragazzo ebreo ungherese di Tab doveva prendere la decisione più importante della sua vita. Moshe Ze’iri lo spingeva a dedicarsi alla causa collettiva del sionismo e a emigrare in Palestina, ma Bernie si rendeva conto dei disagi che anche l’utopia sionista avrebbe comportato. In primo luogo, bisognava soggiornare in un altro campo a Cipro, dove le autorità britanniche relegavano puntualmente gli emigrati “illegali” diretti in Palestina. L’idea di essere nuovamente internato in un campo circondato da filo spinato gli era insopportabile. E nonostante le cure ricevute a Selvino, Bernie non poteva non accorgersi della pressione esercitata sulle loro giovani menti di sopravvissuti per piegarle agli interessi di una forza collettiva. Egli si dibatteva in preda a un conflitto interiore tra il sentimento di solidarietà, l’orgoglio di appartenere a un gruppo di ebrei che si ribellavano al marchio di vittime e il forte desiderio di godere di una libertà individuale, di sottrarsi alle restrizioni, di non essere più confinato fisicamente o mentalmente. Era il sogno della sua infanzia, la vita meravigliosa che lo attendeva se si fosse deciso a seguire il cammino del sole.
Il ragazzo si rese conto di avere desideri più profondi dell’orgoglio e della nuova solidarietà per la causa palestinese che il suo mentore sionista gli aveva comunicato. Sentiva il bisogno di ricrearsi una famiglia.
Quando Bernie decise di accettare l’offerta di Charlie, Moshe Ze’iri reagì duramente. Ci fu un alterco appassionato. Moshe sapeva essere brutale oltre ogni limite, per il bene della causa.
Così fece di tutto per fargli cambiare idea. Lo sottopose a forti pressioni, lo accusò di essere un traditore e poi lo fece isolare come un intruso. Si spinse fino a far circolare la voce che Charles Merril volesse rapire Bernie per convertirlo al cattolicesimo e fargli prendere i voti. Ma Bernie non cambiò idea, nonostante sapesse che si trattava di una decisione rischiosa che gli precludeva un’alternativa importante. Da allora infatti, non potè più contare sull’esodo in Palestina, mentre le pratiche per trasferirsi negli Stati Uniti furono terribilmente lunghe e faticose. Bisognava aspettare, e la scelta di emigrare in America rendeva sempre più difficile la permanenza a Selvino.
Verso la fine del 1946 Bernie si trovava ancora nel campo e assistette all’arrivo di un folto gruppo di ragazzi ebrei provenienti dall’Europa orientale. Questi profughi erano cresciuti o si erano rifugiati in regioni dell’Unione Sovietica che non erano state invase dai nazisti, riuscendo così a sottrarsi ai campi di concentramento. Le loro storie differivano da quelle del gruppo più ridotto di sopravvissuti che Moshe Ze’iri aveva inizialmente accompagnato a Selvino, e che erano accomunati dalle sofferenze patite. All’epoca, i ragazzi presenti nel campo erano all’incirca centocinquanta, ma la maggior parte dei componenti del nucleo originario di sopravvissuti ad Auschwitz, Mauthausen e Gusen era già partita. Verso la fine del 1946, Bernie disse addio al suo amico del campo di concentramento, perché Simcha Katz fu mandato in Palestina via Cipro. Si salutarono senza sapere se si sarebbero mai più rivisti.
Bernie dovette lasciare Selvino nel febbraio 1947, in condizioni tutt’altro che favorevoli.
Insieme agli altri veterani di Selvino che avevano scelto destinazioni diverse dalla Palestina, venne trasferito a Cremona in un campo profughi piuttosto grande e squallido. Improvvisamente le cose presero una brutta piega, e Bernie cadde nuovamente in preda alla depressione.

Durante l’autunno tuttavia, una lettera di Charles Merrill gli permise di sfuggire allo squallore di Cremona. Merrill lo invitò a contattare una signora di Lucca che aveva fatto parte della resistenza durante la guerra. La donna aveva trovato una famiglia di Viareggio disposta a ospitare Bernie a pagamento. Ovviamente, Merrill si offriva di provvedere alle spese. A Viareggio Bernie ricevette un’accoglienza gentile e amichevole, che lasciò in lui un sentimento duraturo di simpatia nei confronti degli italiani. Quel soggiorno, che durò diversi mesi, segnò la fine dei suoi patimenti nei campi di un’Europa dilaniata dal conflitto, dai campi di sterminio nazisti ai campi profughi del dopoguerra.

Nel frattempo, il suo benefattore si dava da fare per procurargli un visto di ingresso negli Stati Uniti. I documenti necessari vennero infine rilasciati nel novembre 1947, due anni dopo la lettera in cui Charles si offriva di aiutarlo. Bernie dovette andare a Genova per ritirarli. Poiché non aveva passaporto, certificato di nascita o qualsiasi altro documento che potesse comprovare la sua identità e le sue origini, il consolato americano gli rilasciò un permesso di immigrazione speciale in cui figurava come apolide. Se Charles Merrill non si fosse prodigato con tanta costanza e non avesse speso ingenti somme di denaro per abbreviare l’iter burocratico, probabilmente Bernie non sarebbe mai riuscito a emigrare negli Stati Uniti.
Finalmente l’America incominciava a profilarsi all’orizzonte in maniera tangibile. Bernie si immerse nello studio della lingua, adoperando il dizionario di inglese e ungherese che Charlie gli aveva inviato.”


Tratto da: Patterson Tubach Sally (a cura di), “Bernat Rosner e Fredric C. Tubach: Amici nonostante la storia. Dalle due sponde dell’Olocausto“, Feltrinelli, 2003, pages 110-115.


Ricordando Auschwitz nel 70° della Liberazione del campo (scritto dal nipote di Bernat Rosner)

Nel 70 ° anniversario della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa, oggi gennaio 29 — è anche l’83° compleanno dello zio di mia moglie, Bernie Rosner, che precipitò in crudele vortice del  campo di sterminio nazista quando aveva appena dodici anni, nel 1944. La sopravvivenza finale di Bernie e la successiva vita lunga e felice è un duraturo trionfo sui suoi aguzzini nazisti.

Bernie’s extraordinary story, like those of nearly every Holocaust survivor, is brutal, dehumanizing, dramatic, courageous and, ultimately, life affirming.  In June 1944, when he was a 12-year old Orthodox Jew studying for his Bar Mitzvah in the provincial Hungarian town of Tab, local authorities and their Nazi allies ordered the transfer of over 475,000 Jews to the death camps.  Given 24 hours notice, Bernie, his younger brother, Alexander and mother and father, Bertha and Louis, were marched with hundreds of other Jews through the streets of Tab to the death camps.  Seven decades later, Bernie recalled for Libby and me at his northern California home last weekend that some of his Christian neighbors jeered as he left his home forever.

Bernie and his family were transported in a stifling, crowded, fetid cattle car to Hitler’s empire of death—Auschwitz–in modern day Poland.  He recalls a fleeting moment in the Budapest train station when a kind woman pushed a few slices of orange through the train’s barbed wire fence into his hand.  He remembers two elderly people who died along the way, their corpses left to rot in place by the guards.  And he will never forget when, nearing their final stop, his father turned to him and said flatly, “it’s all over”.

Fearful images of a hot, cloudy day on the Auschwitz train platform are imprinted in Bernie’s memory.  Thousands of crying, screaming, terrified people thrown from the train. Nazi guards yelling and pushing them toward a distant checkpoint. His father disappeared first, ordered to report to a different part of the camp.  Then his mother, forcibly separated from her two sons.  When Bernie tried to follow his younger brother to the line heading left, he was shoved by a German officer to a separate line to the right.  His brother and those in his line were gassed that day while Bernie’s line of men and boys was sent to the Birkenau work camp in the vast, horrible Auschwitz complex.

Over the next ten months, Bernie survived terrible cruelties at Auschwitz and three other death camps. Liberated by American troops in May 1945, he and hundreds of other Jewish orphans were spirited into Northern Italy by members of the Jewish Brigade from Palestine. They spent two years there, training to create a new state so Jews would never again be victims.

Bernie’s life was changed forever, however, by a visiting American GI who took a liking to this bright, precocious but wounded refugee kid.  Months later, the GI sent a letter offering to bring him to the United States as his ward.  14-year old Bernie chose America over Palestine, because, he reasoned, it was safer to go with the victor.

The young GI was Charles Merrill, Jr., son of the great Wall Street financier.  He gave Bernie a home in which to heal.  Excelling at school, Bernie graduated from Cornell and Harvard Law School and rose, eventually, to become General Counsel for Safeway Corporation in San Francisco. He survived every deadly trial of the Holocaust but refuses to consider himself a victim.

Hitler’s crimes at Auschwitz and other death camps are so enormous that they risk becoming a numbing abstraction unless we recall during this Holocaust Remembrance Week the distinct stories of each victim and each survivor.  Bernie’s life, along with those of millions of people caught up in the fires of World War Two, demand that we remember and vow– Never Again.


.

Translate »