Sidney Zoltak, in memoria di Selvino (capitolo nove)
My Silent Pledge: A Journey of Struggle, Survival and Remembrance (Paperback – 2013)
2 Febbraio 2015 

Tradotto in italiano: 
Sidney J. Zoltak, – Una tacita promessa. Il mio viaggio di lotta, sopravvivenza e memoria, Cremonabooks, 2020

Alla fine di settembre 1945, il mio amico Yitzhak corse a dirmi una grande notizia. Aveva sentito da parte dal personale dell’Agenzia Ebraica che una nuova casa dei bambini ebrei era stata costituita nel paese di Selvino!
A 70 chilometri a nordest di Milano. Era una casa dei bambini ebrei rifugiati dai sei a sedici anni e prepararli per la vita in Eretz Israel. Doveva essere un servizio educativo e un luogo per reintegrare i bambini che erano sopravvissuti alla guerra e che erano stato lasciati senza l’adeguata supervisione di un adulto. Per aiutarli a recuperare il ritardo negli studi e insegnare loro come comportarsi e lavorare. La maggior parte dei bambini erano orfani, anche se alcuni avevano un genitore. Yitzhak era entusiasta dell’idea di andare a Selvino perché lo avrebbe portato più vicino al suo sogno di vivere in Israele. Perciò si era messo in testa di andare a Selvino e mi voleva con lui.
Mi ci sono voluti un paio di giorni prima che riuscissi a trovare il coraggio di affrontare i miei genitori. Yitzhak mi ha aiutato a cercare di convincerli. Ho implorato e pianto e ho sottolineato la componente educativa. I miei genitori erano realisti. Inoltre videro l’atmosfera libera e volgare dei campi profughi. Pensarono che una casa per bambini sarebbe stata un posto migliore per un giovane come me. Tuttavia, dopo aver visto il loro unico figlio uscire vivo dall’inferno, la separazione tra noi era impensabile. Mia madre, che rispettava il valore della formazione prima di tutto e che sapeva che negli ultimi quattro anni la mia istruzione scolastica  era stata praticamente nulla, alla fine cedette.
All’inizio di ottobre, Yitzhak ed io abbiamo completato i moduli di richiesta da mandare al Centro Diaspora in Via Unione 5 a Milano. Noi facemmo un giro con uno dei soldati ebrei e aspettammo al Centro che una persona ci portasse a Selvino.
I Centri Diaspora erano un’iniziativa dell’Agenzia ebraica in Palestina, con l’obiettivo di organizzare e preparare i profughi e rifugiati del dopoguerra alla loro immigrazione in Eretz Israel. Sotto la guida di emissari dalla Palestina, il Centro Diaspora di Milano aveva aperto le sue porte nel maggio 1945. Situato a pochi passi dalla famosa Cattedrale Il Duomo di Milano, il Centro Diaspora venne ospitato in un edificio usato in passato come sede della milizia del regime fascista. Dopo la liberazione, gli amministratori provinciali di Milano consegnarono questa grande struttura alle organizzazioni di soccorso ebraiche. C’erano anche alcuni uffici per i militari alleati.
Dato il costante afflusso di profughi ebrei, l’edificio del Centro Diaspora era in piena attività, sia di giorno che di notte. I piani superiori dell’edificio servivano anche come dormitori, mense e sale riunioni. I profughi sapevano che avrebbero potuto trovare un pasto gratuito e un letto per dormire la notte. Si potevano ricevere cure mediche, razioni di cibo, vestiti e anche del denaro per piccole spese. I rifugiati potevano compilare dei moduli per ritrovare i parenti in Palestina, America o altrove. Furono effettuate indagini sui parenti che potevano essere sopravvissuti alla guerra.
Gli emissari del Centro Diaspora in Via Unione 5 erano sempre impegnatissimi. Non solo avevano a che fare con le molte domande dei rifugiati, ma anche con le forze di occupazione e le autorità locali. Inoltre, erano impegnati a trovare le navi per l’immigrazione clandestina in Palestina, ad ottenere forniture e attrezzature per l’organizzazione di vie di fuga dall’Europa centrale verso sud.
Yitzhak ed io abbiamo atteso al Centro Diaspora per ore prima che arrivasse chi ci poteva fare da scorta verso Selvino. Era un soldato ebreo alla guida di un camioncino militare. Il soldato ci accolse con un ampio sorriso contagioso e ci parlò in yiddish. Ci disse che il suo nome era Moshe, ma che tutti a Selvino lo chiamavano Fetter Moishe (zio Moses). Il suo vero nome era Moshe Engert. Era diventato un autista per la compagnia Solel Boneh.
Solel Boneh è stata la compagnia costituita dalla Histadrut (la Federazione sindacale del Lavoro) per la costruzione di strade ed edifici in Palestina. Nel 1942 la compagnia Solel Boneh ha cominciato a reclutare uomini abili nelle costruzioni per aiutare gli Alleati nello sforzo bellico. C’erano ingegneri, elettricisti, costruttori e maestri artigiani e commercianti. Inoltre, hanno anche attirato ben note figure pubbliche, insegnanti, artisti e attivisti delle forze clandestine di difesa (l’Haganah) e dei partiti politici, i quali volontariamente si arruolarono per combattere le forze del Terzo Reich. Gli ebrei in Palestina avevano dato a questa organizzazione il nome di ‘Solel Boneh Company’. Questo gruppo di uomini lavorò dapprima nel genio militare in Egitto, poi nel marzo 1944 sbarcò a Napoli in Italia. Come le altre unità di combattimento ebraiche dell’esercito britannico, il ‘Solel Boneh Company’ ha avuto un ruolo non solo in combattimento, ma anche nel prendere contatto con le comunità ebraiche. Ovunque andassero, i volontari hanno fornito sostegno morale e hanno portato la notizia della colonizzazione ebraica (l’Yishuv) della Palestina.
Ai primi di maggio del 1945, la compagnia di Moshe Engert raggiunse Milano. All’arrivo in Italia, gli venne assegnato il compito di lavorare con i bambini che erano sopravvissuti alla Shoah. Radiante di calore affettuoso, era profondamente motivato ad aiutare le persone, soprattutto i bambini. Ha dimostrato un sincero entusiasmo per il suo compito. Su sua richiesta, le unità militari ebraiche in Italia accantonarono il 15 per cento delle loro razioni per integrare il cibo assegnato ai bambini, le altre agenzie sociali. Nelle sue frequenti visite a Selvino, sarebbe stato accolto con amore dai tanti bambini in attesa al cancello, perché sapevano che Fetter Moishe aveva – come al solito – un sacco di chicche, come il cioccolato, caramelle, piccoli giocattoli e bigiotteria.
Il più importante lavoro di Fetter Moishe era quello di portare dei bambini a Selvino che erano arrivati da diversi avamposti. Alcuni bambini erano stati organizzate in piccoli gruppi prima di raggiungere l’Italia. Hanno viaggiato e superato il confine svizzero o austriaco dove venivano aiutati dalle organizzazioni ebraiche o andavano da soli verso i campi profughi. C’erano molti bambini che da soli peregrinavano sulle strade. Una delle fermate più frequenti era Via Unione 5, dove Fetter Moishe riusciva a prendere questi bambini.
In questo particolare giorno, il mio amico Yitzhak ed io eravamo molto felici di essere accolti da questo soldato amichevole, che ci stava portando nel suo camion verso la casa dei bambini di cui avevamo sentito così tanto parlare.
Fetter Moishe ci disse quello che pensavamo del nostro viaggio. Egli ci spiegò che l’auto da Milano sino ai piedi della montagna sarebbe andata veloce, ma che la salita sulla strada di montagna alla ‘Casa’ di Selvino sarebbe stata lenta ma molto sicura. Ci disse, in modo amichevole, che avevamo fatto la scelta giusta e che saremmo stati molto felici lì. E così, nel primo pomeriggio, abbiamo iniziato il nostro cammino.
Come Fetter Moishe ci aveva spiegato, la strada era davvero piatta e liscia fino al paese di Albino. Poi abbiamo cominciato a salire fino al villaggio di Selvino, che si trova mille metri sopra il livello del mare. Eravamo su una strada stretta, serpeggiante nel bosco e su un terreno montagnoso. Il viaggio andò liscio con l’eccezione di alcuni momenti terrificanti quando fui costretto a guardare giù dal bordo di un precipizio su un ripido pendio. Ci sono stati momenti in cui il piccolo camion, un Dodge americano, ha avuto difficoltà a fare le curve di 180 gradi e ha dovuto fare retromarcia. Dal paese, ci ha portato all’ingresso dell’edificio che era la nostra destinazione.
Quando la porta venne aperta e siamo entrati nel cortile, Fetter Moishe teneva gli occhi fissi su di noi. Voleva valutare le nostre espressioni facciali. Eravamo conquistati dalla magnifica vista di un edificio irregolare nella forma, che si trovava in un contesto di montagna. Il centro dell’edificio era alto quattro piani, affiancato su entrambi i lati da strutture a due piani. In altro c’era una grande scritta: SCIESOPOLI. Al centro dell’edificio, sotto un balcone di buone dimensioni al secondo piano, c’era un enorme scalinata semicircolare che portava ad un atrio piastrellato in marmo. All’interno di questa magnifica struttura, c’erano molte camere e servizi che dovevano servire allo scopo per la quale l’edificio era stato originariamente costruito.
Durante il regime di Benito Mussolini, questo complesso di lusso fu una casa di vacanza per l’elite della gioventù fascista. Dal balcone del palazzo i leader del partito fascista avrebbero assistito alle sfilate dei giovani. Sulle sue pareti vi erano slogan fascisti e le immagini di Mussolini. Su una lapide in marmo nella sala d’ingresso, a capo di una lista di collaboratori alla costruzione della Casa di Sciesopoli, era inciso il nome di Benito Mussolini. Il suo contributo fu di 5.000 lire.
C’era una sala da pranzo con lunghi tavoli e panche. Accanto ad essa vi era una spaziosa cucina. Ci sono stati alcuni dormitori con letti e armadi in file ordinate, una palestra, un teatro, una piscina interna, uffici, una infermeria, bagni, ripostigli, aule e laboratori. Di fronte a ‘Casa’ vi era una piazza per le assemblee e gli venti speciali. Qui ebbe luogo il rito quotidiano della “anafat hadeghel”, l’alzabandiera cerimoniale della bandiera blu e bianca. Quella cerimonia faceva venire le lacrime agli occhi a molti bambini. C’era anche un altro cortile dove i bambini facevano la loro ginnastica mattutina. Ad un livello più basso, c’era un campo di calcio sempre occupato.
La mia prima reazione a ‘Casa’ di Sciesopoli fu di stupore, ma non fu niente in confronto ai miei sentimenti, quando fummo portati nei corridoi di marmo lucido per il resto dell’edificio. Quando entravo in ogni stanza, ero commosso fino alle lacrime. Dopo aver vissuto e dormito in caserma, tende militari e in carri bestiame, vedendo la mia nuova casa – così bella e irreale – mi parve come un sogno o un’illusione.
Un giovane uomo, un madrich, un consulente, assegnò a ciascuno di noi un letto e un comodino nel grande dormitorio per i ragazzi. Ci mostrò dov’erano le docce e ci disse di andare nella sala da pranzo ad un momento specifico. Ci ricordò di essere puntuali. L’importanza della disciplina ci venne immediatamente sottolineata.
Nella sala da pranzo, fummo accolti da un paio di consiglieri che ci parlarono in yiddish. Visto che eravamo nervosi, hanno cercato di aiutarci a rilassarci e a sentirci a casa.
“Questa è la vostra nuova casa,” hanno detto. “Sarete molto felice qui.”
Prima di sederci ai posti a noi assegnati a tavola, Yitzhak ed io siamo stati presentati a Moshe Zeiri, il direttore della ‘Casa’. Ci accolse parlando in yiddish e in ebraico. Come ci fummo seduti al tavolo della sala da pranzo, alcuni dei bambini ci accolsero e ci scambiammo qualche parola. L’atmosfera era cordiale. I vecchi abitanti della casa sembravano rilassati e sicuri … ero sicuro che fossero felici di vedere altri bambini provenienti da ambienti simili, dei bambini che avevano attraversato un inferno simile al loro e ne erano usciti miracolosamente vivi.
Quasi tutti quelli seduti avevano gli occhi concentrati in direzione della cucina. Infine, il cibo venne portato in sala da pranzo da alcuni bambini, di età compresa tra 12 e 16 anni. Questi bambini, ci dissero che avevano avuto l’incarico di lavorare in sala quella sera. A tutti veniva servita una porzione di pasto della serata, ogni bambino – e presumo che fosse lo stesso per gli adulti – ricevette anche un piccolo rotolo di pane. Dopo che Moshe Zeiri ebbe augurato a tutti “be’teavon”, [il buon appetito in ebraico], iniziammo a mangiare. Per non so quale motivo, forse perché mi sentivo così emozionato ed insicuro, ho mangiato tutto il pane, ma soltanto la metà del cibo che era nel mio piatto. Gli altri bambini seduti vicino a me mi guardavano, avevano notato che non avevo nessuna intenzione di finire tutto il cibo. Poi misi sul tavolo coltello e forchetta e spostai il mio piatto verso il centro del tavolo. Alcuni dei ragazzi mi chiesero, quasi all’unisono, se avessi finito di mangiare. Quando la mia risposta fu sì, chiesero se potevano avere i miei avanzi. Fui contento di questo e mi ringraziarono sinceramente. Subito mi feci nuovi amici. Non mi rendevo conto che il nostro approvvigionamento di generi alimentari era limitato e solo più tardi lo scoprii. L’aria fresca e l’attività fisica della casa suscitarono in me appetiti superiori alle razioni di cibo. Non ci volle molto tempo prima che mi comportassi anch’io allo stesso modo con i nuovi arrivati alla ‘Casa’.
Il fornitore principale della maggior parte degli alimentari era l’UNRRA, il resto proveniva dai soldati ebrei delle varie unità dell’esercito britannico. Nessun soldo fu inviato dalla Palestina a sostegno della casa per l’infanzia. L’aiuto del Joint Distribution Committee venne molto più tardi. Pane, verdura e frutta venivano dal villaggio di Selvino, in cambio di denaro e di altre forniture militari. Ogni bambino giunto a Selvino dovette rinunciare a tutti i suoi oggetti di valore. Tutto divenne proprietà comune.
Quella prima sera, ad Yitzhak e a me dissero di alcune attività di svago in cui i bambini erano stati incoraggiati a partecipare dopo cena. C’era una sala per la danza popolare israeliana, una stanza in cui giocare a scacchi o a dama e un’altra stanza che aveva uno più tavoli di ping-pong. Anche se venni invitato da alcuni dei ragazzi a partecipare, decisi di rimanere un osservatore per la prima sera. Ero stato lontano dai miei genitori per meno di un giorno e nonostante l’ambiente piacevole e dinamico, mi mancavano molto. Mi sentivo solo. Stavo pensando a mia madre, che era così protettiva e dolce e a mio padre che era così tranquillo e sofferente. Continuavo a chiedermi come potevano stare e quando sarebbero venuti a trovarmi.
La cultura della Casa di Sciesopoli era strutturata secondo gli ideali dei movimenti giovanili dei pioniere di Eretz Israel. Fu diretto e amministrato dalla Gioventù Aliya ed era conosciuto in Palestina e in Italia come “Beth Aliyat Ha’Noar, Selvino” (La Casa della Gioventuù Aliya di  Selvino). Le norme e i regolamenti erano applicati a tutti. Ora ci si riferiva alla nostra nuova casa come alla ‘Casa’.
A Selvino i bambini dovevano studiare mezza giornata e dovevano svolgere varie attività nell’altra metà della giornata. Il programma di lavoro fu diviso in dipartimenti secondo nomi specifici. Ad esempio, i bambini che erano assegnati per una settimana alla sala da pranzo avrebbero dovuto fare tutto ciò che doveva essere fatto nella sala da pranzo, compreso servire i pasti. Il compito delle pulizie prevedeva la responsabilità della pulizia dei bagni e delle docce. I bambini erano responsabili di tutto il lavoro nella ‘Casa’ inclusa la manutenzione. Le riparazioni gravi erano compito degli adulti e, se necessario, dei commercianti.

Oltre ai consiglieri, agli insegnanti, al direttore Moshe Zeiri e al nostro medico devoto e compassionevole, la dottoressa Pessia Kissin, gli altri adulti che ricordo erano il capo cuoco, il giardiniere e Angelo, il custode della casa che è stato anche responsabile della pulizia della piscina e del mantenimento del riscaldamento. Con rare eccezioni, il resto del lavoro fu fatto dai bambini che rapidamente impararono i compiti loro assegnati. C’erano anche alcuni bambini
che perfezionarono a tal punto le loro abilità in alcuni compiti che svolsero quel lavoro in modo permanente.
La componente educativa della ‘Casa’ venne progettata per preparare ogni bambino a stabilirsi in Eretz Israel. Le classi non vennero divise per età ma secondo il livello di conoscenza di ciascuno. Nessuno di noi aveva documenti o pagelle di altre scuole. La maggior parte di noi sapeva solo ciò che avevamo imparato durante le nostre peregrinazioni.
Quando Yitzhak e io siamo arrivati a Selvino, all’inizio del mese di ottobre 1945, c’erano meno di cinquanta bambini nella ‘Casa’. Poiché la maggior parte di loro era orfana, sono sempre stato molto riluttante a rivelare agli altri che i miei genitori erano ancora vivi. Mi sentivo a disagio a parlarne. Quando noi bambini parlavano tra di noi delle nostre singole esperienze di guerra, ho capito che non potevo confrontarmi con molti di loro. La mia storia di sopravvivenza impallidiva al confronto con la loro storia. I miei genitori mi hanno protetto. La maggior parte di loro non li ha avuti. Dopo un certo numero di mesi, a causa dei miei pensieri malinconici, scrissi un saggio come compito negli studi ebraici, intitolato Motke il partigiano.
La maggior parte dei bambini venuti a Selvino erano arrivati dai campi di concentramento, dalle foreste dove alcuni di loro avevano combattuto con i partigiani, dai villaggi dove si aggiravano e si nascondevano e dai conventi e monasteri cattolici. Ci sono stati alcuni che sono sopravvissuti dopo essere stati esiliati in Siberia e in altre aree sottosviluppate dell’Unione Sovietica. Tutti avevano una sfiducia generale verso gli adulti. I bambini provenienti dagli istituti religiosi cristiani hanno avuto un momento particolarmente difficile quando dovettero adattarsi agli usi e alle tradizioni ebraiche. Anche se la ‘Casa’ non seguì riti ebrei ortodossi, le festività ebraiche vennero celebrate nello stile tradizionale. Molti dei bambini che avevano vissuto come cristiani durante la guerra erano più confortati dai riti cristiani. Ci hanno detto che nel dormitorio delle ragazze, non appena le luci erano spente per la notte, si mettevano in ginocchio a pregare vicino ai loro letti. Quella scena era meno comune tra i ragazzi.
I miei studi sono stati stimolanti. Sono stato messo in un gruppo con una certa conoscenza della lingua ebraica. Ad alcuni dei bambini più grandi, che prima della guerra avevano frequentato le scuole che insegnavano ebraico o yiddish e talvolta entrambi, venne chiesto di aiutare quelli che ancora non sapevano riconoscere l’alfabeto ebraico. A causa della mia scrittura ordinata, fui reclutato per insegnare ai giovani come scrivere e pronunciare l’alfabeto ebraico. Tale status speciale intensificò il mio entusiasmo per la parte della giornata dedicata allo studio. Ero ansioso di imparare e gli insegnanti erano molto felici di insegnare. Di tanto in tanto paragonavo questa esperienza post-liberazione ai giorni della scuola a Siemiatycz. Ho apprezzato la differenza e ne ero grato.
Un sacco di entusiasmo e di amore venne versato nell’insegnamento della storia e nella geografia degli insediamenti ebraici. Gli insediamenti furono costruiti da persone dedicate alla causa, pionieri idealisti che avevano lasciato il comfort delle case dei loro genitori in Europa e altrove per il duro lavoro manuale necessario a costruire una patria ebraica.
E’ stato emozionante essere un partecipante attivo alle attività sociali della ‘Casa’. Ho fatto ancora un sacco di cose con il mio amico Yitzhak, ma ho anche fatto amicizia con gli altri bambini. Mi è piaciuto molto ballare e sono diventato bravo. Ho giocato a ping-pong e a scacchi. Nel mio tempo libero, durante le ore diurne, ho giocato a calcio. Non avevo abbastanza talento per essere inserito nella squadra d’elite che ha gareggiato contro altre squadre, ma sono riuscito a entrare nei giochi di pick-up. Mi alzavo presto ogni mattina per fare ginnastica, dopo l’assemblea quotidiana dell’alza bandiera, prima colazione e poi o lavoro o studio. Le attività erano lunghe e faticose e le giornate erano pienissime.
Mia zia, mio zio e mia cugina Chanale erano rimasti a Padova. Hanno valutato che salire su per la montagna era difficile a causa dell’altitudine, hanno consigliato mio padre di non viaggiare. Mia madre mia ha detto che la sua salute è rimasta stabile e che stava bene. Lei naturalmente mi abbracciò e mi baciò e mi portò un sacco di chicche. Quando se ne andò, condivisi il cibo e gli spuntini con i miei amici. Ho notato che alcuni di loro erano invidiosi. Molti anni dopo, un ragazzo che in seguito divenne uno dei miei migliori amici e i cui genitori sono stati uccisi nella Shoah, mi confessò, che quando mia madre venne a trovarmi, mi odiò. Mia madre continuava a farmi visita e mi portò degli extra che io condividevo con gli altri.
Ogni giorno ci sono stati nuovi arrivi e a noi, ora eravamo i vecchi residenti, venne chiesto di fare uno sforzo speciale per farli sentire i benvenuti. Mi sono integrato molto bene nella ‘Casa’. Ho lavorato duro ma mi sono divertito. Anche gli altri bambini si stavano divertendo. Abbiamo tutti sentito l’amore e il rispetto dei consiglieri e non vedevamo l’ora di una nuova vita promettente in Eretz Israel. C’era, però, una restrizione che infastidì molti di noi. Per i bambini che erano sopravvissuti da soli, senza i loro genitori e senza un parente adulto, tale restrizione era difficile da capire.
I bambini che venivano a Beit Aliyat Ha’Noar sono stati scoraggiati dal parlare delle loro storie personali di sopravvivenza. L’ordine dato a consiglieri dal direttore stesso era di non ascoltare storie personali. L’accento era messo sull’Aliya e su Eretz Israel.
Quattro decenni più tardi, nel 1985, ci fu un incontro molto emozionante in Israele di ex Bambini di Selvino e dei loro figli e nipoti. Si svolse nel Kibbutz Tel Yitzhak, nell’anfiteatro del Massua, museo e centro educativo dedicato alla memoria dei bambini uccisi nella Shoah. Ci fu anche una cerimonia speciale per festeggiare il 70° compleanno del direttore Selvino Moshe Zeiri. Dopo una serie di discorsi e presentazioni, Moshe ci cantò la sua canzone preferita in Yiddish, Oyfn Veg Shteyt un Boym, una canzone che cantava per noi a Selvino. Poi fece un discorso appassionato in cui chiese scusa agli ex bambini di Selvino per non aver permesso loro di parlare delle loro esperienze e delle loro terribili storie di sopravvivenza. Si rese conto molto più tardi che non era il modo giusto di affrontare il processo di guarigione dei bambini. Mia moglie Ann ed io abbiamo assistito a questo struggente evento in cui non si sono trovati che pochi occhi asciutti.
Alla stessa riunione di festa, il noto autore israeliano, Aharon Megged, ha celebrato il lancio del suo libro – in ebraico – Viaggio in Terra Promessa: la storia del Selvino Children. Una traduzione in italiano è stata pubblicata nel 1997 e una inglese è stata pubblicata nel 2002.
Si tratta di una bella storia di persone meravigliose con valori umanitari eccezionali.
Durante il nostro soggiorno a Selvino, abbiamo scoperto, a pezzi e bocconi, alcuni fatti storici sul progetto di Selvino. Nella primavera del 1945, dopo che l’esercito tedesco fu cacciato d’Italia, due leader delle comunità ebraiche italiane, Raffaele Cantoni e la sua assistente Matilde Cassin, sono tornati in Italia da un esilio di due anni in Svizzera. Cantoni fu un patriota italiano, un socialista e anche un attivo sionista. Matilde Cassin era la figlia di un giurista ebreo fiorentino e fu attivo nella comunità locale e le cause sioniste. Entrambi hanno lavorato insieme clandestinamente durante la guerra nell’Italia fascista. Il loro compito era quello di nascondere i bambini ebrei in luoghi come conventi e monasteri. Nel 1943 dovettero scappare in Svizzera. In Via Unione 5, a Milano, hanno iniziato il loro compito urgente di trovare i bambini ebrei nascosti e riportarli alle loro radici.
Quando Cantoni chiese al Centro della Diaspora un aiuto, lo ebbe da Moshe Zeiri, un educatore inviato dall’Agenzia ebraica in Palestina per aiutare i bambini ebrei sopravvissuti all’Olocausto. Moshe Zeiri aveva accettato il compito senza esitazione. Zeiri era un membro del Kvutzat Schiller, un collettivo agricolo in Palestina. Il Solel Boneh, la compagnia che lo aveva reclutato per andare in Europa date le sue eccellenti doti di educatore e organizzatore. E’ stato quindi perfetto per lavorare con i bambini.

Sidney Zoltak a Selvino

La Casa del Sciesopoli nel villaggio di Selvino era sotto la supervisione del professor Luigi Gorini. Il professor Gorini era stato attivo nel movimento di resistenza durante il regime di Mussolini ed era il capo del partito socialista, nel quartiere di Milano. La sua assistente, Anna Maria Toriani che poi divenne sua moglie, è stata pure attiva nel movimento di resistenza. Come membro del partito socialista, il professor Gorini era il loro rappresentante in seno al Comitato per la Liberazione d’Italia. Dopo aver incontrato alcuni sopravvissuti e soprattutto dei bambini, Luigi e Anna Maria ha fornito loro cibo e vestiti. All’inizio del mese di settembre del 1945, il professor Gorini è stato avvicinato da Cantoni e Zeiri per poter utilizzare la casa di Sciesopoli come una casa per bambini e un centro educativo che preparasse i bambini per andare in Palestina. La sua risposta fu: “Sì, per i bambini, tutto.” In quella delegazione vi era Tedy Beeri, un altro membro della Compagnia Solel Boneh. Tedy Beeri aveva vissuto in Italia durante il regime fascista e poi era emigrato in Israele.
Il professor Gorini poi ha iniziato il processo di finalizzare gli accordi ed ottenere i diritti legali per la Casa di Sciesopoli. Questo processo, lo abbiamo appreso in seguito, dovette fronteggiare un sacco di opposizione. Qualcuno ha sostenuto che la colonia di “Sciesopoli” fosse stata promessa alla Chiesa cattolica come un seminario per la formazione dei sacerdoti. Alla fine, il professor Gorini perseverò e la ‘Casa’ divenne una casa per le centinaia di bambini ebrei che per fortuna erano stati salvati.
Circa ottocento bambini di età compresa tra i sei e i sedici anni passarono per questa casa. Qui abbiamo avuto una famiglia allargata e per alcuni, la loro unica famiglia.
Il 14 marzo 1976, durante una cerimonia a Yad Vashem, Remembrance Authority Gli Eroi dell’Olocausto del Martire a Gerusalemme, il professor Luigi Gorini ricevette una onorificenza per lo straordinario coraggio nel contribuire a salvare gli ebrei durante la Shoah.
In quella cerimonia a Yad Vashem, Anna Maria Torriani, moglie del professor Gorini, ha accettato la medaglia. Il professor Gorini si era ammalato ed era stato portato all’ospedale Hadassah di Gerusalemme. Il 13 agosto dello stesso anno morì all’ospedale Beth Israel di Boston.

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