Shmuel Milchman, uno dei “Bambini” di Selvino, passato per i campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau, Mauthausen ed Ebensee, quindi divenuto tipografo, è scomparso il 9 ottobre 2015.

Insieme alla figlia Cheli Garty, ha scritto un libro in ebraico sulla sua vita, lunga 86 anni, dalla Polonia sino in Israele.
Si intitola “Il ragazzo da lì. Memorie di luce e ombra di Shmuel Milchman“.
Un intero capitolo narra la sua vita a Selvino. Una bella storia da fare conoscere.
Il capitolo si chiama “II ritorno dell’infanzia”, ed è stato tradotto in italiano per consentire al pubblico Italiano di leggere e conoscere la bella storia di Selvino.
“Il ragazzo da lì”, il bambino che è sopravvissuto al ghetto e ai campi di sterminio ed è diventato un uomo di Israele, le cui radici sono profondamente intrecciate con la storia di Israele.
Il primo caccia legione del Palmach, uno dei fondatori Kibbutz Rosh Hanikra e un costruttore di Tel Aviv e Eilat, una delle imprese statali iniziali nel settore della stampa e anche un prolifico artista di talento.

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“Il ragazzo da lì” è diventato uomo abbronzato qui, un amorevole marito e premuroso uomo con la famiglia.

“Il ragazzo da lì”, la cui infanzia era colma di tristezza e di dolore, ma la cui anima era colorata, positiva e felice, è rimasto illeso.

Sul volto di Shmuel Milchman c’è un perenne sorriso. Il mondo riflesso nei suoi occhi è ricco di scolori e vivacità.
Il libro narra la vita di Shmuel, dal suo punto di vista, e ci offre una riflessione fresca dalle molte tinte.

Ringraziamo Cheli Garty per averci permesso la pubblicazione del capitolo in italiano dedicato a Selvino e per averci mandato alcune copie del libro.

Chi fosse interessato a riceverlo può scrivere a: info[@]sciesopoli.com

 

 


CAPITOLO 5 — IL RITORNO DELL’INFANZIA

(tratto da “Un ragazzo. Ricordi tra luci e ombre” di Shmuel Milchman).

E un mattino chiaro tutto finì. Dopo anni di sofferenza e fame terribile. Dopo lunghi mesi di campo di concentramento duro. Dopo giorni, settimane e mesi di file disperate nelle interminabili conte del mattino, sotto le grida, le botte e gli insulti, improvvisamente ci svegliammo in mezzo al silenzio.
Per alcuni momenti la parola silenzio riempì lo spazio di un mattino primaverile di inizio maggio. Momenti in cui ciascuno di noi si ritirò nel proprio cuore e nei propri pensieri senza essere costretto a sbrigarsi e ad alzarsi dai tavolacci, senza doversi piegare all’autorità di nessuno, senza aver paura. Pian piano si fece spazio dentro di noi, cautamente, la sensazione della libertà.
Ci fu chi la sentì immediatamente, per altri questa sensazione s’introdusse lentamente, gradatamente e per altri ancora furono le sensazioni fisiche, causate dalla fame e dagli stenti, ad avere il sopravvento.
Così tutti quelli che mi erano accanto, non appena ebbero capito che eravamo soli, che i tedeschi se n’erano andati e che non c’era più nessuna guardia nel campo, si misero a correre verso la dispensa e la cucina. Fatta irruzione, cominciarono a mangiare tutto quello che capitava sotto ai loro occhi: conserve, salsiccia essiccata, burro e margarina. Dopo 5 anni e mezzo di guerra, ridotti alla fame, tutti pelle e ossa…il loro corpo non poteva contenere tutto quel cibo. Lo stomaco si era ridotto e l’intestino non sapeva più come trattare tutta quell’abbondanza. E fu così che accadde la cosa più tragica che si possa immaginare: persone che erano sopravvissute al ghetto e ai campi, che erano sopravvissute alle più terribili condizioni, che avevano più volte superato il processo di selezione, crollarono improvvisamente a causa del cibo. Morirono per aver mangiato più di quanto il loro corpo emaciato e sofferente potesse sopportare. Fu semplicemente orribile.
Io non mi precipitai nelle dispense. Non mi misi a correre e a spingere con gli altri. Non so proprio come facessi a sapere che non dovevo farlo. Nessuno mi aveva mai
spiegato come funziona il corpo umano, ma lo intuii. Tutti andavano in una direzione: i depositi alimentari. lo mi fermai un momento e poi mi voltai dall’altra parte. Il cancello del campo era aperto e il primo pensiero fu di attraversarlo e uscire. Con me c’era un amico, un ragazzo della mia età, anche lui di Lodz. Non ricordo il suo nome perché siamo stati insieme solo qualche settimana, ma ricordo che eravamo adatti l’uno all’altro come una mano al guanto. Io andai avanti e lui mi venne dietro. Fuori dal campo, non lontano dal cancello, c’era la caserma delle guardie tedesche. Fu là che ci dirigemmo. Non c’era nessuno: i tedeschi erano fuggiti durante la notte, si erano allontanati dal campo di Ebensee, lasciando tutto così com’era dietro di loro.
La prima cosa che facemmo fu sdraiarci su un letto: letti morbidi e accoglienti con lenzuola bianche e pulite. Ci sembrò di sognare. Chiunque abbia mai dormito su una branda militare sa che non si tratta poi di letti così comodi e probabilmente di brande si trattava, ma per i nostri corpi esausti, costretti da mesi e mesi a dormire su duri e maleodoranti tavolacci di legno, fu meraviglioso. Ci scegliemmo due letti. “Sono nostri!” Ci dicemmo l’un l’altro e ci installammo lì. Poi decidemmo di andare alla ricerca di cibo. Nelle abitazioni delle guardie trovammo conserve alimentari di qualità, salami e biscotti, cibo che per anni avevamo potuto solo sognare, ma non volli toccarlo. In qualche modo sentivo che non mi avrebbe fatto bene. “Ci vuole qualcosa di fresco” disse il mio corpo al mio cervello e così, chiusa a chiave la casa, andammo a cercare qualcosa da mangiare nel villaggio vicino.
Nei nostri sporchi abiti da prigionieri entrammo nel lindo paesino austriaco. Due ragazzini magri con le divise a righe di misura troppo grande per loro si inoltrarono nei giardini verdi e curati delle case del villaggio. Gli abitanti ci guardavano con orrore. Una contadina che ci vide passare sotto le sue finestre chiuse le imposte, la gente distoglieva da noi Io sguardo. Gli facevamo paura e probabilmente non gli sembravamo esseri umani. Erano sicuri che fossimo andati a derubarli e così ci diedero subito quello che chiedevamo: latte, pane e patate.
E poi tornammo alle abitazioni che ci eravamo procurati. Intanto cominciavano ad arrivare dal campo altri prigionieri che pure volevano usare i letti comodi e morbidi delle guardie ed entro sera il posto era pieno, ma a noi rimase il diritto di  precedenza.
Il giorno seguente arrivarono i soldati americani. Entrarono con le jeep nel campo, distribuirono wafer e cioccolato e cominciarono a curare i malati più gravi. Giunsero ben presto anche da noi, ma io non avevo bisogno di loro. Il giorno dopo la liberazione mi sentivo di poter già badare a me stesso. Da dove mi venivano quel buon senso e quella maturità? Non lo so, dopo tutto ero solo un ragazzo di sedici anni. Guardandomi indietro, posso dire che avevo la sensazione forte e chiara che dovevo preoccuparmi di me stesso senza aspettare che qualcuno arrivasse a salvarmi. In ogni guerra mi sono sentito così. Certo, c’erano persone intorno a me che mi hanno aiutato, e molto, ma prima di tutto c’ero io, pronto a tenermi stretto il destino con entrambe le mani.
Così si svolgeva la vita dopo la liberazione. Vivevo nella caserma delle guardie, e ogni mattina andavo nei villaggi del circondario per chiedere o “prendere” cibo: ad un certo punto la gente del luogo smise di darcelo di propria iniziativa e noi cominciammo a rubare senza vergogna. Se vedevo una brocca di latte che una contadina aveva lasciato sul davanzale per preparare il formaggio, semplicemente la prendevo. “Il latte” si dice “è la cosa più importante per i bambini. I bambini hanno bisogno di latte per crescere e diventare forti” e la cosa che più volevo al mondo era crescere, diventare forte e riprendermi tutto quello che mi era mancato in quei cinque anni e mezzo. Ma naturalmente era impossibile recuperare tutto quello che era mancato al mio corpo negli anni più importanti dello sviluppo. Ad esempio, secondo la mia misura di piede, il 45, dovrei essere molto alto, almeno un metro e ottantacinque, ma sono arrivato al massimo a 1,72. Volevo crescere, irrobustirmi e sentirmi forte. Era la mia missione di allora. In uno dei miei vagabondaggi nel circondario arrivai a un campo militare tedesco abbandonato. Girai nelle vie del campo, aprii le porte degli armadi e i cassetti e improvvisamente trovai in uno dei cassetti una pistola. Fino ad allora non ne avevo mai tenuta in mano una. Ogni volta che ero stato vicino a una pistola era perché era diretta verso di me o verso qualcuno che era vicino a me. Adesso tenevo con due mani una pistola e si trattava di una buona sensazione. Uscii e sparai due colpi, per provare che la pistola funzionasse, la pistola sparò e io me la nascosi tra il corpo e gli elastici dei pantaloni. Orgoglioso ed emozionato, tornai al nostro quartier generale. Ma più che emozionato, ero spaventato dalla pistola, perché a parte quei due colpi di prova, non ne avevo mai usata una, così alla fine la regalai al mio amico. In fin
dei conti, ero ancora un bambino.
Due giorni dopo, vale a dire due settimane dopo la liberazione, decisi di lasciare quel luogo. La vita lì era ancora troppo simile alla vita del campo. Pur senza le botte, le conte o il lavoro disumano, l’atmosfera era quella del campo di concentramento. Guardandomi intorno, vedevo persone spente, senza una scintilla di vita. Quasi nessuno parlava con gli altri. Ognuno era chiuso in se stesso come un lupo solitario: sentii che dovevo andarmene.
Ma dove andare? Non lo sapevo. Non avevo nessuna idea di dove mi trovassi. Conoscevo sì il nome del luogo, sapevo di trovarmi in Austria, non lontano dalla città di Linz, ma dov’era tutto ciò nella mappa? E dov’era l’Austria rispetto a Lodz, la mia città natale, ad esempio? Non sapevo dov’ero e tanto meno dove andare.
Sapevo che a Lodz ormai non mi aspettava nulla. Dopo tutto quello che avevo visto nei campi di concentramento avevo capito da solo che i miei familiari non potevano essere ancora vivi. Avevo solo una piccola speranza nei riguardi di mio fratello, ma anche nel caso in cui lui fosse vivo non avevo nessuna idea di dove andare a cercarlo.
Non sapevo dove andare, ma mi era chiaro che là non volevo rimanere e così uno di quei giorni andai alla stazione ferroviaria più vicina e quando arrivò un treno ci salii. Non avevo i soldi per il biglietto e ogni volta che si avvicinava il controllore mi nascondevo. Dove andava il treno? A nord, a sud, a est, a ovest? Non ne avevo nessuna idea. Semplicemente andavo avanti.
Dopo alcune ore il treno si fermò in una città sconosciuta. Guardai fuori dal finestrino come avevo fatto tutte le altre volte che il treno si era fermato. Il posto mi sembrò piacevole, bello, verde e così decisi di scendere. Era la cittadina austriaca di Innsbruck, adagiata sulle rive del fiume Inn, in mezzo alle Alpi. Scesi dal treno e cominciai a girovagare per la città. Improvvisamente in una strada vidi un gruppo di soldati e quando mi avvicinai a loro notai sul colletto della divisa la stella di Davide. Non passò nemmeno un minuto e i soldati mi si rivolsero in hiddish “Ingle, bambino!”. “Da dove vieni?” mi chiesero. “Dal campo” risposi” ho viaggiato in treno…” e cominciai a raccontare. “Abbiamo un posto per te. Vieni con noi e avrai da mangiare e un letto caldo, starai insieme a ragazzi della tua età.”
mi dissero i soldati “Stiamo raccogliendo tutti i ragazzi” mi spiegarono. Senza pensarci troppo li seguii.
Quei soldati erano combattenti della Brigata ebraica, ragazzi che erano venuti dalla terra d’Israele [fondato come Stato nel 1948] per combattere come volontari al fianco dell’esercito britannico durante la guerra. Alla fine della guerra si erano imposti una missione speciale: raccogliere gli adolescenti ebrei sopravvissuti alla Shoah e aiutarli ad emigrare in Israele. Naturalmente tutto ciò al di fuori dei loro doveri di soldati britannici, visto che gli inglesi, che a quel tempo governavano il Paese, erano contrari a un’immigrazione di massa degli ebrei. Ma di questo parlerò dopo. Quei soldati mi raccolsero in mezzo a una strada di Innsbruck e mi portarono in Italia.
In Italia si erano radunate dopo la guerra la maggior parte delle organizzazioni di aiuto agli ebrei. Vi aveva sede il comando del movimento “Ha briha” (La Fuga) e il comando dell’organizzazione “Alia bet” che si occupavano di raccogliere i sopravvissuti dell’Olocausto in tutta Europa e di farli emigrare in Israele. Si trattava di un lavoro sacro, svolto segretamente e illegalmente, con enorme dedizione. Quando arrivai in Italia nella primavera del 1945 l’organizzazione era ai suoi albori ed io fui tra i primi ragazzini ad essere raccolto dalla Brigata dopo la liberazione dei campi di concentramento.
La mia prima tappa in Italia fu la città di Modena, non lontano da Bologna. Là incontrai altri adolescenti come me, bambini dei lager. Dopo alcuni giorni, da Modena ci trasferimmo a Milano, e da Milano verso nord, a Bergamo: lì cominciò a formarsi il gruppo. A poco a poco si univano a noi ancora un altro ragazzo o un’altra ragazza, profughi dei campi di concentramento che in qualche modo i soldati della Brigata raccoglievano. Così arrivarono Yechiel Sharfer, mio buon amico, Yeshayhu Liechtenstein, uno dei proprietari del famoso gelato Montana, che già allora era un abile commerciante, l’attore Shmuel Shilo e altri. Di giorno in giorno il gruppo si ingrandiva, finché la casa in cui alloggiavamo divenne troppo stretta per contenerci tutti e si trovò per noi posto nella colonia del pittoresco paese di Selvino, sulle Alpi.
La colonia di Selvino era servita prima di allora come colonia per i ragazzi del movimento fascista, l’élite degli adolescenti fascisti nel periodo del potere di
Mussolini. Era una casa grande e spaziosa, una bellissima costruzione con camere comode, una piscina, giardini fioriti, erba, e un bellissimo panorama sulle Alpi. Un sogno, niente da dire. Vi arrivammo in estate, quando le montagne sono coperte di verde e tutto intorno è illuminato dalla luce del sole, dolce e morbida: che contrasto con il panorama delle baracche e le recinzioni di filo spinato dei lager!
Un miracolo. Non vi è un’altra parola per definirlo, dal momento in cui incontrai i soldati della Brigata per le vie di Innsbruck, la mia vita cambiò completamente. Come in un teatro, cala il sipario su una scena buia e dolorosa e alcuni secondi dopo il sipario si riapre su un palcoscenico illuminato e allegro. All’inizio non lo capii. Ero sospettoso e pauroso, ma dopo un certo tempo qualcosa dentro di me si aprì e di lì in poi iniziò il secondo capitolo della mia vita.
Il luogo in cui vivevamo a Selvino era bellissimo, comodo e amplio, ma intorno c’era una recinzione e all’entrata del giardino c’era un cancello di ferro, cose che non mi piacevano per nulla. Inoltre dopo anni in cui ero stato così solo dovevo ora adattarmi alla vita comune del gruppo di adolescenti e anche questo non era scontato. Forse non è adatto a me, pensavo. Forse devo andare in un altro posto, tornare in Polonia, a Lodz, e cercare qualcuno della mia famiglia. Questi erano i pensieri che si affacciavano alla mia mente in quelle prime settimane. Più di tutto speravo di poter trovare mio fratello. Forse anche lui si trovava in un gruppo di ragazzi come il mio, ma in un altro luogo. E ogni volta che incontravo un nuovo gruppo di ragazzi chiedevo notizie: “Moshe Milchman. Dovrebbe avere 14 anni adesso. Forse l’avete incontrato?” Ma nessuno l’aveva visto e non avevo un filo da seguire per andare a cercarlo.
Le prime settimane in Italia dopo la liberazione furono settimane di organizzazione e adattamento ma dopo un po’ di tempo la vita cominciò ad aprirsi davanti a me. Chi mi aiutò e ci aiutò più di tutti fu Moshe Zeiri, la nostra guida. Moshe Zeiri era un uomo della Brigata, un membro del gruppo Shiller, insegnante, educatore, uomo di cultura ed uno dei primi a capire la situazione e a occuparsi dei bambini sopravvissuti dopo la guerra. Lo conoscemmo già a Milano e da lì continuò a guidare il nostro gruppo. Era come il padre di tutti noi, insegnante, sostegno e guida. “Non preoccuparti, starai bene qui. Studierai e lavorerai, riceverai da mangiare, avrai degli amici.” Aveva visto nei primi tempi le mie reazioni
sospettose e faceva di tutto per tranquillizzarmi. Ed effettivamente, pian piano, mi accorsi che cominciavo ad essere in sintonia con tutti.
Moshe Zeiri sapeva rapportarsi a ciascuno di noi individualmente e nello stesso tempo unirci gli uni agli altri. E in effetti diventammo un gruppo affiatato a tal punto che anche oggi, settant’anni dopo, i legami tra di noi sono forti. Zeiri si preoccupò che ciascuno di noi vivesse un’esperienza adolescenziale normale e positiva; organizzava per noi dei giochi di gruppo, ci portava a fare passeggiate nella natura e in città. Ci parlava della terra d’Israele, della vita che vi si svolgeva e dell’esperienza dei kibbutz.
Come preparazione alla nostra emigrazione in Israele ci insegnavano canzoni in ebraico. Me ne ricordo una in particolare: “Una canzone, una canzone per te” (in ebraico “Zemer, zemer lah”) che a noi bambini di lingua madre hiddish suonava come “Zemelah” che in hiddish significa “panino”: eravamo sicuri che di questo parlasse la canzone! E così quando la mattina eravamo seduti a mensa per la colazione e ognuno aveva nel piatto un panino cominciavamo a cantare “Zemelah” nella speranza di riceverne ancora uno.
A Selvino ho ricevuto indietro, come un regalo, la mia infanzia e improvvisamente si è risvegliata dentro di me la gioia di vivere. Di giorno in giorno mi sentivo come una pianta che cresce e un fiore che si apre. Ogni giorno mi lasciavo dietro, come le foglie in autunno, la vita degli anni della guerra, la mia vita di bambino perseguitato. Non avevo dimenticato tutto quello che mi era successo durante l’infanzia nel ghetto e nei campi di concentramento, ricordavo tutto, ma riposi questi ricordi in ordine, dietro di me. Tutto gusto è successo ed è finito, mi dicevo nel mio cuore. Ora davanti a me c’era una nuova vita.
Selvino mi ha cambiato la vita. Per cinque anni e mezzo ero stato un infinito numero di volte di fronte alla morte. Un infinito numero di volte ero sopravvissuto, ero rimasto vivo, ma solo a Selvino ricevetti veramente la mia vita, una vita vera, abbondante e ricca, piena di gusto, non solo una vita di sopravvivenza. E tutti sentivamo così, tutti noi, ragazzi di Selvino, e nei cuori di ciascuno di noi fino ad oggi c’è un angolino speciale e caldo, riservato e a quel luogo e a quel periodo. Nel 1983 in Israele ci riunimmo tutti e decidemmo di tornare insieme a Selvino, per la prima volta da quando eravamo emigrati in Israele. Quando entrammo nella casa,
subito ci sommersero i ricordi dei giorni della nostra infanzia. Eravamo ormai adulti sui cinquant’anni, sposati e padri di famiglia, ma quando ci sdraiammo su quei letti tornammo ad essere i bambini di un tempo.
Guardandomi indietro, posso dire che per me il periodo di adattamento dopo la guerra fu veloce, ma non fu così per tutti. Il gruppo degli educatori con affetto e delicatezza aiutava i ragazzi ad uno ad uno ad adattarsi alla nuova vita e a lasciarsi dietro i sedimenti degli anni della guerra… ma non era un compito facile. Vi erano bambini, soprattutto i più piccoli, che a causa di tutto quello che avevano passato erano pieni di paure e avevano comportamenti problematici. Alcuni di loro nascondevano il pane sotto il materasso, rubavano il cibo o attaccavano gli altri bambini durante i pasti per rubarglielo. Comportamenti molto difficili. Una parte dei bambini più piccoli, che erano stati nascosti durante la guerra nei monasteri, portavano ancora la catenina con la croce e non volevano togliersela. La sera, prima di dormire, si inginocchiavano davanti alla croce che era appesa sopra ogni letto dai tempi della colonia fascista, e pregavano Gesù. Il gruppo delle guide aveva un gran lavoro educativo da svolgere e noi, i ragazzi più grandi, li aiutavamo. Durante i pasti ci facevano sedere insieme con i bambini più piccoli e noi con grande pazienza spiegavamo loro come comportarsi.
Un giorno arrivò a Selvino da Israele un ragazzo e ci parlò del kibbutz Hanita. Ci raccontò come un gruppo di giovani di notte fosse salito furtivamente sulle montagne ripide della Galilea per fondare questo kibbutz con il metodo “torre e palizzata”. Le autorità britanniche infatti avevano proibito la fondazione di nuovi insediamenti ebraici nel Paese e in reazione a tale decisione gli uomini dell’organizzazione ebraica “Haganah” avevano inventato un metodo: arrivare di nascosto di notte al punto individuato, costruire una palizzata e una torre e grazie a loro stabilire l’insediamento come un dato di fatto. Hanita era stato il primo luogo che la comunità ebraica era riuscita a fondare sulle montagne della Galilea, in una zona interamente circondata da villaggi arabi. Tenacemente e coraggiosamente i membri di Hanita avevano conquistato la montagna. Durante la notte gli arabi li attaccarono e due ragazzi furono uccisi, ma gli altri non si fecero prendere dalla disperazione e il kibbutz fu fondato. Quel ragazzo ci raccontò tutta questa storia ed io stavo di fronte a lui con gli occhi che brillavano, ascoltando e trattenendo il
fiato.
Non molto tempo dopo, la nostra guida, Moshe Zeiri, radunò noi ragazzi più grandi, il gruppo degli adolescenti, e ci rivelò con emozione che era giunta l’ora per noi di emigrare in Israele. “Andrete al kibbutz Hanita” ci disse ed io ero fuori di me per l’emozione e la gioia. In seguito ci spiegò che si trattava di emigrazione illegale e delineò, nei limiti di quel che ci poteva raccontare, la strada che avremmo percorso. “Prima di tutto, vi trasferirete a Magenta, vicino a Milano, e di là alla data concordata vi porteranno al porto, dove salirete sulla nave che vi porterà in Israele”.
Pochi giorni dopo, in un giorno del dicembre 1945, circa 6 mesi dopo essere arrivato a Selvino, partimmo. Con baci e abbracci ci separammo dai nostri amici di Selvino. “Ci scriveremo” promettemmo gli uni agli altri e in seguito mantenemmo la promessa. Esattamente come ci aveva detto Zeiri, andammo a Magenta e dopo un breve periodo di attesa, venne l’ora. Dei camion ci portarono in un piccolo porto vicino alla città di Genova, sulla costa ligure, non lontano dal confine con la Francia, e di là il 9 gennaio 1946 salpammo con la nave “Enzo Sereni” per Israele.


 

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