Bobbi Maxman (Bronka Auerbach) una ex Bambina di Selvino, è morta improvvisamente a New York il 7 luglio 2016, all’età di 83 anni.

Bobbi MaxmanBobbi era nata nel 1932 a Zalosce (Zalosza o Zaliztsi), una piccola città che allora era polacca e oggi si trova in Ucraina.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, la Polonia venne divisa e Zalosce entrò a far parte dell’Unione Sovietica. Ma, nel giro di due anni, i nazisti invasero la Polonia. Così l’infanzia di Bobbi cambiò per sempre e si concluse anche la sua istruzione scolastica appena iniziata. Dopo aver vissuto nel ghetto di Tarnopol, la famiglia di Bobbi si nascose in un fienile, dietro la casa di un ucraino che veniva chiamato “il Gobbo”.
Quando il loro nascondiglio fu scoperto, tutta la famiglia, con Bronka e il fratello Avraham Auerbach, si nascose nella foresta dell’Ucraina. Per sei mesi tutti vissero in una buca scavata nel terreno, coperta da un pannello e da rami, che si riempiva d’acqua fino alle ginocchia quando pioveva e dalla quale non si vedeva la luce del giorno. Sopravvissero con i fagioli che dava loro un contadino in cambio di denaro e oggetti di valore.
Per passare il tempo, Bobbi e suo fratello avevano ideato un gioco particolare: dividevano a metà un filo di paglia su cui facevano gareggiare dei pidocchi come fossero delle macchinine.
Il 15 marzo 1944, la zona fu liberata dall’Armata Rossa e la famiglia di Bobbi poté tornare a Zalosce. Ma scoprì che la loro casa era stata rasa al suolo dai nazisti e che il 99% degli ebrei aveva subito la stessa sorte. Il padre ottenne un posto da impiegato sotto il nuovo regime. Fu arrestato per qualche vaga accusa, ma poi fortunatamente fu rilasciato. Allora decise di scappare con tutta la famiglia dall’Unione Sovietica e di raggiungere la Palestina. Fu un’odissea che alla fine li portò in Italia.
Da Tarnopol andarono in Slesia e poi a Bielsko. I bambini si fermarono circa sei mesi a Bielsko, in una casa in affitto molto affollata, in condizioni penose. Con l’aiuto della “Brichà” raggiunsero l’Austria attraverso la Cecoslovacchia e l’Ungheria. Rimasero qualche tempo a Graz e a Vienna, poi finalmente la Brigata Ebraica li portò in Italia.
I genitori di Bobbi furono inviati in un campo profughi a Firenze, mentre per i bambini non c’era posto nel campo. Perciò Bobbi e il fratello Allan (Avraham) furono portati a Selvino nella casa di Sciesopoli, dove impararono l’ebraico e le competenze necessarie per un eventuale emigrazione in Israele.

Mosee Auerbach

Riva Auerbach

Dopo circa sei mesi, i g1947-03-08 Auerbach Mosesenitori si recarono a Selvino per riprendere i figli, Bronka che aveva quattordici anni e Avraham tredici. Ma i due ragazzi non vollero partire. Erano irremovibili e insistevano: “Questa è la nostra famiglia.”

Così anche i loro genitori decisero di trasferirsi a Selvino.
Il padre, che era un calzolaio, insegnò il mestiere ai bambini di Selvino, mentre la madre lavorò nelle cucine.

 

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aereo in IsraeleBobbi lasciò Selvino nel 1947 insieme con una ventina di altri ragazzi di Selvino.  Avrebbero raggiunto Israele con un aereo che presero di notte vicino ad un cimitero nei pressi di Roma. Atterrarono in un campo incustodito della Palestina.
Bobbi fece parte del gruppo che fondò il kibbutz Rosh Hanikra, sulla costa del Mediterraneo al confine con il Libano. Visse in diversi kibbutz nel nord di Israele. Nel 1948 combatté con l’esercito nella guerra di indipendenza di Israele del 1948.
Nel 1951, Bobbi decise di andare per nave in America a visitare i suoi genitori e il fratello Allan, che erano riusciti ad emigrare dall’Italia nel 1949. Bobbi è stata una degli ultimi immigrati in America passata da Ellis Island, prima che questo famoso approdo chiudesse. Sebbene avesse previsto di tornare in Israele, rimase a vivere in America dove trovò lavoro. All’età di 20 anni tornò a scuola a studiare, poiché aveva solo la seconda elementare e poca conoscenza della lingua inglese.
Il suo desiderio di conoscere e sapere si riaccese. Bobbi completò il liceo, conseguì un diploma in Design al Fashion Institute of Technology, una laurea in russo al Brooklyn College, altre lauree alla City University di New York e al Bank Street College of Education, e un dottorato di ricerca al Teachers College della Columbia University. La sua formazione non terminò con l’iter scolastico perché Bobbi è stata una studentessa per tutta la vita. Ha continuato a studiare e a frequentare le lezioni al College dell’Università di Yeshiv, alla Y, e in sinagoghe e musei.

Bobbi e Al Maxman
Nel 1955, tramite amici comuni, Bobbi incontrò Al Maxman che sposò nel 1956. Ebbero due figli, Joel e Ron. Poi si trasferirono in una casa vicino al mare, nella zona di Manhattan Beach di Brooklyn.
Bobbi lavorò come stilista, come contabile, come insegnante di lingua straniera.
Poi, per molti anni lavorò come insegnante di educazione speciale e come psicologa per bambini con problemi formativi, in una scuola media nella parte est di New York di Brooklyn.

Dopo la pensione, Bobbi e Al si trasferirono a Manhattan. Erano accaniti frequentatori di teatro, a volte assistevano a quattro o cinque rappresentazioni alla settimana. Dopo la pensione poterono trascorrere più tempo nella loro casa a Block Island.


Tra marzo e aprile 2016, Bobbi ha partecipato all’incontro dei Bambini di Selvino che si è tenuto al kibbutz di Tze’elim in Israele. Lì ha ritrovato i vecchi amici di Selvino, alcuni dei quali non aveva più visto da quando nel 1947 si era allontanata da Sciesopoli per andare in Israele.

Bobbi lascia due figli: Joel con la moglie Sherri, e Ron con la moglie Helen e i nipoti Andrea, Elizabeth, Nicole, Sophie e Julia. Fino alla fine è stata piena di vita e di energia.


Alcune note sulla vita a Sciesopoli a ricordo di Bobbi Bronka Maxman (Auerbach), tratte da Aharon Megged, (pagine 33, 37, 78-79, 148, 151).

Bronka at SciesopoliOgni giorno arrivavano nuovi bambini, dai campi, dalle foreste, dai conventi dove erano rimasti nascosti; parlavano polacco, yiddish, ungherese, romeno, italiano.
Moshe Zeiri, Matilde e Reuven Donat li accoglievano sulla porta, li facevano entrare, parlavano con ognuno di loro, annotavano tutti i loro dati in ufficio.
Moshe dava a loro dei nomi ebraici: Mila diventò Emmanuel; Berrik divenne Dov; Janek divenne Va’acov; Romek divenne Ram; Bronka divenne Bracha; Andusha divenne Ayala; Luba divenne Chaviva.
Li accompagnavano per i lunghi corridoi fino ai dormitori, dove ad ognuno era assegnato un letto e un armadietto, e dicevano loro: “Questa sarà la tua casa d’ora in poi.”
Quel poco che avevano portato con loro, le rare cose che ancora possedevano o avevano raccolto nelle loro peregrinazioni, una camicia rattoppata, un paio di calze rotte, un temperino, monete, ricordi, venivano sistemate negli armadietti. La casa, cui si accedeva da un’ampia scalinata curva che conduceva all’ingresso, con la facciata marrone e ocra e le persiane verdi, appariva ai bambini come un castello, con i lucidi pavimenti di marmo e linoleum, le grandi sale, le scalinate di marmo, i corridoi e il labirinto di stanze in cui ci si poteva perdere, la piscina, le mattonelle nei bagni, le enormi pentole in cucina, le ampie finestre, il giardino e i boschi tutt’intorno. Era come una favola.

Bronka e Abraham Auerbach
Màlkale e la sua amica Bronka, entrambe tredicenni, erano le “bellezze” della casa di Selvino.
Allorché dovettero applicarsi della pomata nera per curare la scabbia, decisero di spalmarsela su tutto il corpo e sul viso, in modo che nessuno potesse vederle così brutte, e si chiusero nella loro stanza per tutto il giorno.
Un altro giorno, mentre lavoravano nella lavanderia, venne loro voglia di essere “due bambine pulite”.
Dopo aver finito il bucato riempirono la vasca con acqua calda e sapone, si spogliarono e si divertirono un mondo sguazzando nella schiuma. Sul tetto della lavanderia c’era un grosso tubo che veniva usato per scaricare la biancheria sporca. Uno dei ragazzi più grandi si trovò per caso a guardare nel tubo, vide le ragazze nude; e immediatamente un buon numero di compagni gli si accalcò attorno per godersi lo spettacolo. Quando Moshe Zeiri venne a sapere della faccenda, convocò le due ragazze, le rimproverò e disse loro che, poiché avevano fatto qualcosa che assolutamente non dovevano fare – il bagno nella vasca dei panni e comportarsi da svergognate – avrebbero dovuto lasciare la casa. Ma le ragazze non andarono via. Si dissero che Moshe era come il papà, un papà severo, che a volte dispensa punizioni ingiuste, ma il papà non si può abbandonare.

Leah and girls in SelvinoNella casa di Selvino c’era una legge non scritta, una specie di tabù, per cui non si impartiva alcuna forma di educazione sessuale, né da parte degli istruttori né da parte della dottoressa Kissin.
Le ragazze che raggiungevano la pubertà e avevano le loro prime mestruazioni non sapevano che cosa fare, e si vergognavano a chiedere alle più grandi. Avevano paura di qualunque contatto fisico con i ragazzi. Bronka, ricordando quei giorni – aveva allora quattordici anni, racconterà: “A Selvino, dopo anni di fame, ricominciammo a crescere. I nostri corpi prendevano forma, spuntava il seno. Pensavamo che un seno grande fosse una specie di deformazione, una crescita innaturale, e cercavamo di appiattirlo indossando reggiseni strettissimi che cucivamo da sole, per nasconderlo.”
Ma l’ignoranza e la mancanza di istruzione erano compensate dai vincoli di stretta amicizia e solidarietà, che dettavano norme di comportamento nate dall’ambiente stesso.

 

1947-03-08 Auerbach Moses palestinese maestro calzoleriaUn giorno di agosto del 1983, circa settanta ex allievi di Selvino si misero in viaggio tutti insieme da Israele verso l’Italia, per visitare il luogo in cui avevano ritrovato la loro fanciullezza più di trentacinque anni prima, e per inaugurare una lapide commemorativa.
Promotori dell’iniziativa erano stati due tra i primi ospiti di Selvino: Alex Sarel (Olek) e Moshe Barnea (Buchko).
Un venerdì pomeriggio partirono in pullman da Milano, passarono da Bergamo e imboccarono la strada di montagna ripida e tortuosa, verso Selvino.

Nello stesso tempo da Boston arrivava Annamaria Torriani, la vedova di Luigi Gorini.
Selvino non era più un piccolo villaggio. Dopo tanti anni, era diventato una cittadina turistica, affollata di villeggianti durante i mesi estivi, con alberghi, ristoranti e negozi di ogni genere lungo la strada principale. A est della cittadina, in qualche modo separata da essa, c’era la casa. Il suo aspetto appariva quasi immutato: la larga scalinata ricurva che porta all’ingresso, la balconata rotonda del secondo piano, le persiane verdi, le pareti esterne dipinte in bianco e ocra. Soltanto l’insegna “Sciesopoli” era stata rimossa, sostituita da un’altra poiché la casa era diventata una colonia di vacanze per i bambini bisognosi di Milano.
Davanti alla casa, il cortile, il cancello, le tuie, i cipressi, gli abeti, il sentiero che conduceva al fitto boschetto di pini e querce. Ad attendere gli ospiti c’erano il direttore della casa, il dottor Baldi, il personale, rappresentanti del Comune, fotografi e giornalisti di Bergamo e di Milano che erano stati informati dell’avvenimento.
Quando i visitatori entrarono nell’atrio – commossi nel rivedere il luogo in cui avevano camminato, giocato e studiato da bambini, appena scampati alla valle delle ombre della morte – scese il silenzio, e per qualche lungo attimo tutti rimasero immobili.

Selvino 1983Poi, all’improvviso, non si sa come, qualcuno cominciò a cantare una vecchia canzone dei pionieri, e subito tutti si presero sottobraccio, formarono un cerchio e si scatenarono in una frenetica hora, danzando, saltando, cantando tutte le vecchie canzoni, passando da un ritornello all’altro in un crescendo estatico. Quelli che stavano a guardare avevano gli occhi pieni di lacrime. Annamaria Torriani scoppiò a piangere sulla spalla di Moshe Zeiri. Lui stesso non riuscì a trattenere le lacrime. Tzippora Hegger – ora Levite – sussurrò alle sue amiche: “Mi sento tutta un formicolio dentro …”. Yannek, Abek, Olek, Indusha, Bronka, Sarka rabbrividivano.
Le donne italiane che lavoravano nella casa, vestite di bianco, i giornalisti e i fotografi, gli abitanti di Selvino erano tutti stupefatti, presi dall’eccitazione generale che scorreva come elettricità da uno all’altro. Passò del tempo prima che i giornalisti riuscissero a prendere appunti e i fotografi a scattare fotografie.
Al muro era appeso un pannello che raffigurava l’emblema delle spighe, il libro e la falce con la scritta: “Casa della Aliyà giovanile, Selvino – Italia”, in variopinte lettere ebraiche, dono preparato dai bambini della cittadina per i loro ospiti israeliani.
Bronka, anche lei venuta da New York, dove lavorava come consulente psicologa per bambini con problemi formativi, fece notare a tutti una constatazione sorprendente: «Tutti i “bambini” di Selvino si erano da tempo sposati, avevano avuto figli e nessuno di loro aveva divorziato; erano tutti individui normali, nonostante le loro terribili esperienze, e questa era l’unica cosa “anormale” in essi, secondo i canoni della società occidentale».


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